Tulĕrat







era stanca. 
le cattiverie avevano oltrepassato la soglia di casa sua. avevano raggiunto il suo letto e l'avevano tenuta sveglia. era ancora debole. le cattiverie la debilitavano in misura maggiore rispetto al dolore della malattia. sembrava essere disperata. gli occhi sempre gonfi e acquosi, i capelli che sapevano di medicina.
era consapevole.
spesso le bastava guardare gli altri per rinnovare la promessa di un amore profondo verso se stessa. aveva capito che gli insulti sono una cosa vana.  gli insulti colpiscono chi è già stato umiliato dalla propria coscienza. chi insulta compie una sorta di ripetizione, e chi vuole davvero colpire non desidera essere preceduto. anche questa volta li aveva superati. ragionare era la capacità che la distingueva dagli altri.
era attenta.
lo guardava attraverso le spesse pareti. sapeva che c'era. avvertiva la sua presenza. il suo orgoglio era volgare. il suo sguardo indiscreto. 
era sconvolta.
li temeva. aveva paura delle loro calunnie. le loro azioni dalla frequenza incostante simile alle onde elettromagnetiche. talvolta le creste, i picchi di grande dolore, erano così vicini da creare un unico triste solco.
era innamorata.
la quiete nelle sue mani. il riposo nella sua voce. il conforto della sua bellezza. i sogni alleviavano le sue sofferenze. la realtà offuscava ogni sorta di maldicenza. un legame indissolubile, privato, silenzioso. 






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